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da 

"La Chiesa di San Menna in Sant'Agata dei Goti

Icona di fede di storia e di arte"

di  Franco Iannotta

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   Il 4 settembre 1110 Papa Pasquale II, al secolo card. Raineiro, già monaco di Cluny, consacrò la chiesa di San Menna o Mennato, costruita a ridosso della cinta muraria della città di Sant'Agata de' Goti, a poca distanza e di fronte all'ingresso principale del castello comitale. La singolare venuta a Sant'Agata del 160° successore di San Pietro comportò non solo la presenza di Enrico, vescovo della città e della diocesi1, ma anche la partecipazione dei cardinali al seguito del Pontefice e dei vescovi delle diocesi limitrofe.

L'evento era stato organizzato dal conte normanno Roberto, figlio di Rainulfo, "Sancthae Agathensis quamplurimarumque civitatum comes", come soleva tra l'altro anche definirsi2, il quale stava consegnando alla storia la sua memoria, avendo fatto scolpire a caratteri indelebili il suo nome sull'epistilio della stessa chiesa con i seguenti distici leonini:

CRIMINA DIMITTAT QUI LIMINIS ALTA SUBINTRAT

TEMPLUM SI POSCAT SUB PETRO PRINCIPE NOSCAT

QUOD CUM FUNDASTI ROTBERTE COMES DECORASTI3

 

  

 

In verità, la decisione di includere la contea di Sant'Agata in un viaggio apostolico, era stata programmata dallo stesso Pontefice, per stipulare patti di alleanza coi principi normanni dell'Italia meridionale in un momento delicato della lotta per le investiture, già intrapresa dal suo predecessore Gregorio VII. Nel maggio del 1110, infatti, Pasquale II aveva riunito un sinodo in Laterano, rinnovando la proibizione delle investiture a Enrico V. Prevedendo poi una possibile ritorsione dell'imperatore che, nonostante il trattato di Sutri (4 febbraio 1111), si sarebbe di fatto consumata addirittura con la carcerazione del pontefice, si recò prima a Benevento, ove il 15 luglio 1110 prese sotto la sua protezione il monastero di S. Benedetto "Cupersarum"4, quindi venne a Sant'Agata per consacrare la chiesa di San Menna e mettere anche questa sotto la sua protezione.

   

Un'epigrafe ancora oggi affissa a destra dell'ingresso della chiesa, ricorda alla storia l'eccezionale evento e, in particolare, che "eamque (ecclesiam) dominus Papa sub jure Romanae Ecclesiae beati Petti apostoli in sua defensione suscepit". In quella circostanza la chiesa acquistò un titolo enfaticamente altisonante: fu dedicata, come recita ancora il   marmo commemorativo, "in honorem Domini Salvatoris Sancteque Marie Virginis et Sancte Crucis Sanctorumque Apostolorum Petri et Pauli et Sancti Menne confessoris"6 .

   

Il valore storico dell'epigrafe è indiscutibile, anche se bisogna ritenere che essa sia stata affissa qualche tempo dopo l'evento, anche perché vi si legge "consacrata fuit" e non "consacrata est", come sarebbe grammaticalmente più corretto, se fosse stata scoperta nella circostanza.

    

Dunque, la data di consacrazione della chiesa è certa, ma alcuni documenti, conosciuti e pubblicati da Giuseppe Tescione, uno studioso del conte Roberto6, dimostrano che la chiesa era costruita già nel 1108, che aveva il titolo di San Pietro apostolo, che era collegata ad un'abbazia benedettina locale ed era oggetto di donazioni beneficiarie da parte del conte stesso. Infatti una pergamena del maggio di quell'anno, a firma di Roberto e di suo figlio Rainulfo, sancì la donazione di "unam piscariam quae Turfa vocatur in telesinis finibus ecclesiae beati Petri apostoli sitae infra munitionem nostri castelli civitatis Sanctae Agathes... et domino Urso abbati suisque successoribus in perpetuum"1 .

   

Questa "ecclesia beati Petri apostoli" non può essere identificata con quella di San Pietro a Romagnano sita in contrada "Cinque Vie Migliara", come sostiene il Viparelli8 e, sulla sua scia, Tescione e L. R. Cielo9, per la semplice ragione che quest'ultima era ed è ubicata "extra moenia civitatis" e non "infra munitionem nostri castelli". Anche nella concessione della medesima chiesa fatta, sempre da Roberto, nel 1109 all'arcivescovo di Benevento, si specifica che essa si trova "infra munitionem civitatis Sanctae Agathae"10. Ora tra le chiese site "infra munitionem", cioè nel centro storico di Sant'Agata, quelle che si richiamano all'apostolo Pietro sono due: la prima intitolata a "San Pietro de Stirponis o de Stirponibus" e l'altra consacrata appunto da Pasquale II. Escludendo la prima che ovviamente traeva la denomi­nazione dal fondatore o patrono, non resta che quella fatta costruire da Roberto.

   

Se, come appare ormai certo, la scritta incisa sul portale della chiesa risale a prima della venuta del Papa, a quando, cioè, il conte non poteva immaginare una simile iniziativa pontificia, allora il secondo distico si deve interpretare in senso liturgico e non in chiave politica. Il "templum si poscat sub Petro principe noscat" va tradotto in questo senso: "Se (qualcuno) domanda (a chi è dedicato) il tempio, sappia  (che è) sotto (il titolo di) Pietro principe (degli apostoli)"11.

   

E' documentato che nel 1135 la chiesa continuò a chiamarsi "beati Petri", come dimostra la costituzione apostolica di papa Innocenzo II, il quale concesse al vescovo di Sant'Agata Enrico, lo stesso che accolse il Papa nel 1110, "ecclesias Beati Petri quae infra munitionem Agathensis Civitatis fundatae sunt"12.

   

Resta il punto di domanda in che anno Roberto abbia fatto costruire la chiesa. Ad esso sono collegati altri quesiti, se cioè nel medesimo luogo ci sia stata, o meno, una chiesa preesistente e, in questa eventualità, che rapporto abbia avuto col castello.

     

Per tentare una risposta, bisogna partire dal 1094, un anno che si può considerare particolarmente importante per la nostra ricerca, anzitutto perché il conte Roberto proprio allora terminò la costruzione della cattedrale di Caiazzo, ove evidentemente erano concentrati i suoi impegni finanziari13; e poi, perché nello stesso anno il principe normanno mise in atto un gesto politicamente importante: sulla base di antichi documenti che gli erano stati mostrati a Montecassino, egli restituì all'abate Oderisio, successore di Desiderio divenuto papa col nome di Vittore III, il monastero di "Santa Maria in Cingla" con tutte le sue pertinenze - un'antica questione di proprietà che si protraeva da anni - e con solenne giuramento dichiarò fedeltà e impegno a difendere l'abbazia contro eventuali aggressioni14.

   

La possibilità di disporre diversamente delle sue risorse finanziarie e soprattutto la visita all'abbazia cassinese in un rinnovato spirito di amicizia e di fedeltà, potrebbero aver risvegliato nell'animo del conte ricordi del passato e suscitare il proposito di costruire (o ricostruire) su quel modello un'"ecclesia-cappella comitalis" degna del suo castello santagatese. Il 1° ottobre 1071, infatti, Rainulfo, padre di Roberto, con la moglie Sibilla15, partecipò alla consacrazione della basilica di Montecassino, voluta dall'abate Desiderio. L'evento, immortalato dal celebre cronista Leone Marsicano nel famoso "Chronicon Casinensis"16, aveva suscitato ammirazione e stupore in tutti i presenti, a cominciare dal papa Alessandro II che l'aveva consacrata con riti memorabili. E'da ritenere che Rainulfo abbia portato con sé anche il giovanissimo Roberto, speranza della sua famiglia, così come fece suo fratello Riccardo di Capua con il figlio Giordano17. Si trattava di una preziosa opportunità da non perdere, per presentare e far conoscere il delfino della sua contea.

   

L'abbagliante visione a Montecassino della basilica con la grandiosità delle colonne e dei capitelli dell'antica Roma che Desiderio aveva acquistato personalmente con moneta contante, e il caleidoscopio dei colori del pavimento, opera di artisti bizantini fatti venire appositamente da Costantinopoli e Alessandria18, dovettero creare nel giovane principe una tale ammirazione che, al momento opportuno, si tramutò in proposito di realizzare qualcosa di simile, almeno nelle linee più significative. D'altra parte Montecassino era ormai diventato il punto di riferimento di una nuova cultura spirituale, artistica e politica19, cantata in versi dal vescovo Alfano, testimone oculare dell'evento e a sua volta fautore della costruzione della sua cattedrale di Salerno sullo schema desideriano20.

   

Nel medesimo anno, il 1094, Roberto intraprese una singolare iniziativa: dotare di reliquie insigni la cattedrale di Caiazzo appena ultimata. Essa è collegata direttamente alla chiesa di San Menna e ci consente di determinare, in linea di massima, il periodo della sua fondazione. L'impresa e le gesta compiute dal conte per realizzarla, furono affidate, per volontà del conte stesso, alla penna di Leone Marsicano, il medesimo che qualche decennio prima aveva reso imperitura la costruzione cassinese. Come suppone H. Block21, fu forse durante le trattative su "Santa Maria in Cingla" che l'abate Oderisio chiese all'illustre cronista, divenuto vescovo di Ostia, di mettersi a disposizione del conte Roberto, perchè nel racconto questi viene presentato in termini enfatici: "Vir plane et in saecularibus strenuus et in divinis devotus admodum, prout fas suppetit ac studiosus"22.

   

Infatti Leone scrisse la "Translatio S. Mennatis", pubblicata in edizione critica nel 1944 da Baldvino De Gaiffier23. Racconta come il conte, per raggiungere lo scopo che si era prefisso, su suggerimento di Madelmo, abate di Santa Sofia in Benevento, e di Guiso, abate di San Lupo, si recò col suo seguito in una chiesetta semidiruta nei pressi di Vitulano, ove, dopo aver superato numerose difficoltà e al limite delle forze, finalmente rinvenne il corpo intatto dell'eremita Mennato, venerato come santo già nel VI secolo da papa Gregorio Magno24. L'insigne reliquia, trasportata a Caiazzo, venne collocata con grandi onori sull'altare maggiore della cattedrale.

   

Ma dopo qualche tempo, il primitivo fervore si affievolì e - fatto più determinante - per contrasti insorti su alcuni possedimenti, i rapporti tra Roberto e Costantino, vescovo di Caiazzo, divennero tesi a tal punto che il conte decise, di sua iniziativa, di trasferire il corpo del Santo altrove25.

   

Nonostante il vivo desiderio dell'arcivescovo di Benevento Roffredo, che cercava di convincerlo a trasportare la reliquia nella sua città, Roberto accolse la proposta di Adalardo, definito nel documento "venerabilis et valde honestus vir episcopus civitatis Sanctae Agathae"26. E così fu composta una "Alia Translatio" del corpo di San Mennato appunto da Caiazzo a Sant'Agata, anch'essa inserita nello stesso codice cassinese. Si narra che Adalardo e l'abate di San Gabriele di Airola, tra una moltitudine festante di clero e di popolo, "manibus propriis assumentes atque humeris imponentes, cantando et exultando urbem ingressi sunt, easque (reliquias) ad cappellam comitalis palatii...detulerunt.. .Illic igitur super altare beati Petri sanctis reliquiis honorifice collocatis et divinis ab episcopo mysteriis solemniter adimpletis, gaudens et hylaris unusquisque redeavit ad suam".

   

Nel codice l'anno di questa seconda "translatio" purtroppo è rimasto nelle buone intenzioni del cronista, il quale, pur indicando il giorno e il mese, chissà per quale motivo, non ha avuto la possibilità di colmare lo spazio volutamente lasciato bianco nel testo: "III id. aprilis, cum a prima translatione in Caiatiam essent anni <spazio vuoto> exacti"27.

   

Considerando che Adalardo può essere stato vescovo di Sant'Agata non prima del  110228, in  quanto nell'anno precedente risulta vescovo certamente Bernardo29, e che Roffredo, arcivescovo di Benevento, morì nel 1107, ne consegue che il corpo di San Menna fu trasportato a Sant'Agata tra il 1102 e il 1107.

    

Il fatto più interessante per la nostra ricerca è che le sacre reliquie, giunte a Sant'Agata, furono deposte "ad cappellam comitalis palatii.. .super altare beati Petri". Alla luce delle considerazioni fatte all'inizio sul sito della chiesa, bisogna logicamente dedurre che la cappella del palazzo comitale dedicata all'apostolo Pietro, sul cui altare furono deposte le reliquie di San Menna al termine della seconda traslazione, è da identificarsi con l'attuale chiesa che, pertanto, risulta già costruita tra il 1102 e il 1107. Sarebbe del resto molto riduttivo immaginare vescovo, clero, conte e tutti gli invitati all'evento, più una "innumera tam civium quam vicinorum caterva"- come racconta il cronista - stipati all'interno del castello in un oratorio certamente di modeste dimen­sioni, per celebrare una solenne liturgia pontificale.

   

Resta un punto da chiarire, se la chiesa fu costruita ex novo o ricostruita su di una cappella preesistente.

   

Un manoscritto dell'archivio storico della curia vescovile di  Sant'Agata, compilato nel sec. XIX, riferisce che "nel 871 essendo stata assediata Sant'Agata da Ludovico II imperatore, era vicina ad arrendersi a discrezione del nemico; ma siccome allora trovavasi gastaldo di Sant'Agata Isembrando, cugino e parente di Bassaccio abate di Monte-cassino, questo intercedette presso l'imperatore, e la città ed il gastaldo ottenne il perdono30. Memore il gastaldo di tale operato - dico operato -grato al suo benefattore, ordinò che la chiesa di suo patronato, sotto la denominazione di S. Croce, Ss. Pietro e Paolo e Menna solitario fosse data ai monaci cassinesi, a quali assegnò un competente appannaggio per loro sostentamento"31

    

Che valore storico possa avere la seconda parte di questo documento, è difficile dirlo. Esso certamente risente della tesi del Viparelli, per niente sostenibile, secondo la quale il corpo di San Menna sarebbe stato traslato a Sant'Agata quasi subito dopo la morte32. Tuttavia, il fatto avvenuto nell'anno 871 è corredato da un preciso riferimento alla "Chronica Monasterii Casinensis"33 ed è indiscutibile, anche secondo la tradizione toponomastica locale, la presenza di un'antica abbazia benedettina nel centro storico di Sant'Agata nella località ancora oggi denominata "Santo Benedetto", oggetto di Santa Visita nel 1534 come "Ecclesia Parrocchialis S. Benedicti grancia Abatiae Santi Menne"34. D'altra parte sembra assai possibile che nel sito sorgesse una cappella pubblica del castello, dove il conte con la corte poteva partecipare alle funzioni liturgiche di rito.

   

A traslazione avvenuta, il nome del santo eremita fu così inserito nella titolazione della chiesa, in cui però non si fa alcun cenno di San Brizio e del martire San Socio (o Sozio o Sossio), le cui reliquie, nella seconda metà del Seicento -come vedremo- furono rinvenute insieme con quelle di San Menna sotto l'altare della chiesa nello stesso sarcofago di pietra, reliquie documentate da una lapide bifacciale d'epoca dal seguente tenore:

   

+ HIC REQUIESCIT

CORPUS BEATI

MENNE CONFESSORIS

+ HIC REQUIESCUNT CORPORA

S(an)C(t)ORUM BRICII ET SOCII M(a)R(tiris)

DE UNOQUOQUE

MEDIETAS35

     

Da quanto già detto circa il titolo della chiesa, scaturisce un'ipote­si che potrebbe illuminare questo silenzio. Una volta terminata la costruzione di una chiesa, era (ed è) prassi liturgica celebrarne la dedicazione, durante la quale, per rendere sacro l'altare, bisognava deporre in esso necessariamente, come prescriveva la legge canonica, la reliquia di un martire, con la possibile aggiunta di quella di un santo. Nel nostro caso furono deposte le reliquie del santo vescovo Brizio, successore di San Martino sulla cattedra di Tours (Francia), e del santo Socio o Sossio, martire del Miseno36.

   

Quando, a distanza di qualche anno, giunsero quelle insigni di San Menna, le prime furono inserite nel nuovo sarcofago di pietra "elegantemente lavorato"37, specificando i rispettivi nomi con una lastra di marmo nel mezzo e con la puntuale annotazione "de unoquoque medietas". Quindi, la presenza delle reliquie dei Santi Brizio e Sossio ebbe, a nostro parere, solo un valore liturgico e non un carattere dedicatorio.

    

Sta di fatto che i documenti più antichi dell'archivio di Sant'Agata non fanno parola di questi santi e, se è documentato che la chiesa assume già agli inizi del Trecento il titolo tout-court di San Menna o Mennato38, la presenza delle reliquie svanisce nell'anonimato. Solo nel 1587 un verbale di Santa Visita riferisce, in modo generico, che nell'altare di San Menna "praesumitur esse sepulta corpora Sanctorum aliquorum"39.

   

Nel 1674 un episodio di profanazione, al limite del sacrilego, riaprì il problema delle reliquie. Un certo Giacinto Cacciapuoti, "affittatore" delle entrate della badia di San Menna, desideroso di cercare tesori, di notte scavò sotto l'altare della chiesa e scoprì un'urna di pietra contenente varie ossa divise da una lastra di marmo scritta su ambo i lati, e alcune monete. Confidò la notizia al fratello Vincenzo, il quale, preso da scrupolo e desideroso di ritrovare la pace di coscienza, confessò l'accaduto al frate cappuccino Ludovico da Capua che in quel periodo stava predicando la quaresima nella città di Sant'Agata. Questi gli consigliò di denunziare il fatto al vescovo Giacomo Circi, il quale si portò segretamente nella chiesa per verificare l'accaduto. Quindi, per timore che le reliquie potessero essere profanate e, soprattutto, per evitare "strepito del popolo", il presule pensò di farle trasferire segretamente nella sua cattedrale. Affidò il delicato incarico ai canonici Pietro Di Stasi, Francesco Calcagno e Francesco Mazzone, al primicerio Domenico Di Donato e al tesoriere Melchiorre Coscia.

      

Tutti, insieme col frate cappuccino, si recarono alle due di notte del venerdì santo 1677 nella chiesa di San Menna, per trasferire il sacro deposito nel Duomo40.

   

Nel 1704 il vescovo Filippo Albini, su istanza del Capitolo Catte­drale, istituì un processo canonico sui fatti accaduti circa venticinque anni prima, facendo convocare dal vicario generale Nicola Gualtieri i testimoni oculari ancora viventi, fra i quali il cappuccino Padre Ludovico da Capua. Quindi affidò la ricognizione delle reliquie ai "doctores phisici" Giuseppe Laurio, Francesco Lucca e Fileno Rainone, e l'analisi delle monete ritrovate nell'urna a Matteo Egizio e Giovanni Battista Puja. Infine il 13 novembre  1706, in occasione della festa di San Menna, le reliquie del santo, collocate in un'urna di ebano e argento - dono dello stesso vescovo Albini come ex-voto per la guarigione ottenuta da "febbre terzana" - furono esposte alla venerazione dei fedeli. Il 27 febbraio 1712 San Menna fu dichiarato dalla Sacra Congregazione dei Riti compatrono della città di Sant'Agata de' Goti. L'evento fu celebrato solennemente l'11 novembre dello stesso anno, quando Giulio Ungaro "gubernator" e Fileno Rainone "principalis electus" di Sant'Agata consegnarono le chiavi della città al vescovo Albini nella chiesa della SS. Annunziata.

   

Di quanto rinvenuto nel sarcofago resta una descrizione minuziosa e scientifica, per quei tempi, in un manoscritto dell'archivio della Curia, con la riproduzione a penna delle monete e della lapide sepolcrale.

   

Le reliquie oggi sono conservate nel Duomo di Sant'Agata. Delle monete si è persa la traccia. Anche la lapide sepolcrale era data per dispersa, ma fortunatamente fu ritrovata dal parroco nel 1973 per puro caso, tra i calcinacci, durante i lavori di restauro dell'Annunziata41.

   

A conclusione di questa pagina di storia, è opportuno dare una sobria lettura del monumento, attingendo da quanto scritto da Mario D'Onofrio:

"L'edificio, nel suo impianto architettonico, mostra senza incertezze la stretta derivazione da Montecassino o quanto meno una parentela assai prossima nei riguardi dell'edificio desideriano. Si presenta a schema basilicale su modello "cassinese", ma eccezionalmente la soluzione tripartita del coro non è denunciata all'esterno. L'interno appare scandito in tre navate da una doppia fila di cinque colonne ciascuna, con impiego di capitelli che sorreggono archi a pieno centro. La longitudinalità dell'invaso ecclesiale, interrotta dalla lastra di recinzione del coro, si arricchisce di un coevo patimento musivo, in grandissima parte conservato ed integrato con i recenti restauri"42.

   

E, a proposito del pavimento, Raffaella Farioli Campanati scrive: "La stesura pavimentale della chiesa è scompartita in ampi pannelli quadrati a rettangolari definiti da bordi in marmo bianco, includenti 'rotae'(dischi) circondate da altre minori e tra loro sempre collegate da fasce marmoree avvolgenti, profilate da liste di mosaico. Il tassellato a piccoli disegni geometrici, campisce anche gli spazi di risulta dei tondi, conferendo alla composizione quel carattere di prezioso tappeto geometrico che sarà caratteristico dell'arte dei Cosmati.

   

E' giustamente riconosciuta l'affinità per tipologia e resa ornamentale di questi avvolgimenti, intrecci a intarsi di marmi e mosaici che movimentano le superfici composte in prevalenza da figure circolari, con i pavimenti medio-bizantini di Costantinopoli, dell'Asia Minore e della Grecia, sì che si ritiene che la loro affermazione in Campania si debba effettivamente attribuire a una scuola dipendente dalle maestranze, specialiste in questo settore, chiamate dall'abate Desiderio da Costantinopoli... La tipologia ornamentale ad avvolgimenti di fasce includenti grandi figure circolari -come mostrava il distrutto pavimento di Montecassino - è sicuramente campana, ossia bizantina, e la si riscontra in varie località... e nei più tardi pavimenti del duomo di Salerno"43.

   

Come a Montecassino, anche nella chiesa di San Menna le scelte architettoniche e artistiche corrispondono alla volontà di mettere da parte le modalità costruttive e l'arte d'ispirazione più decisamente bizantina, per ricollegarsi allo splendore e alla preziosità delle basiliche paleocristiane. L'abate Desiderio aveva fatto questa scelta con lo scopo di favorire un ritorno alle origini e agli splendori della chiesa dei martiri, secondo lo spirito riformatore partito dall'abbazia di Cluny, il che avrebbe stimolato a superare le lotte intestine nella chiesa del tempo (siamo in pieno scisma) e a difendere la "libertas ecclesiae" nel delicato problema delle investiture. E così nella scelta degli arredi e degli elementi costruttivi e decorativi più importanti nell'interno delle chiese ( come le colonne e i capitelli ), giocò non solo e semplicemente la necessità di utilizzare i materiali edilizi romani, ma soprattutto la volontà di dare importanza e solennità antiche allo spazio sacro44.

   

Sarebbe interessante indagare sulla provenienza delle colonne e della maggior parte dei capitelli impiegati nella scansione delle navate di San Menna, come pure sulle maestranze che hanno realizzato il suo meraviglioso "opus sedile" detto anche "Alexandrinum". Non sarebbe allora azzardato ipotizzare che il conte Roberto, a imitazione dell'abate Desiderio, abbia comperato il materiale di spoglio romano dagli antiquari del tempo, forse nelle vicine città di Benevento e Capua, recuperando certamente anche reperti locali, e che si sia servito degli stessi artefici cassinesi, o dei loro diretti discepoli, esperti in "arte musiaria et quadrataria", come scrisse Leone Marsicano45.

Un fatto è certo: oggi il pavimento di San Menna è diventato, specie dopo il sapiente e splendido restauro, il parametro per poter immaginare lo splendore di quello di Montecassino, paragonato a suo tempo ad un prato fiorito per la stupenda varietà di colori, ottenuta usando marmi oggi rarissimi46. Il Bertaux asserisce che è "il più antico (pavimento) a data certa dell'Italia meridionale"47.

   

Anna Maria Corsi, con una puntuale ricerca, ultimamente ha dimostrato che l'opus sectile di San Menna, con la sua scansione e il suo ordito, racchiude un preciso messaggio biblico-teologico. Scrive tra l'altro: "Sul fondo del corridoio centrale, ornato da quadratini e triangolini variamente disposti, si susseguono dall'ingresso all'altare, in un percorso artistico e simbolico-religioso, ampie scansioni geometriche in tappeti dalla larghezza pressoché costante ma dalla diversa lunghezza; domina la modularità circolare, indizio di perfezione figurativa che conduce idealmente al Dio-eternità, ma non mancano forme ovoidali, ellittiche, quadrangolari e romboidali.

   

La sequenza verticale dei tre dischi all'ingresso evoca la Trinità, identificata anche nelle due serie interne di tre rotae saldate in orizzontale; ai quattro angoli del pannello cerchi minori indicano i punti cardinali e più genericamente i confini del mondo.

Più avanti, otto dischetti intorno alla ruota centrale rappresentano la corona delle beatitudini, dell'armonia perfetta e del sacramento evangelico; inoltre, la figura circolare inscritta nel quadrato, che si espande nei cerchi tangenti ai suoi lati, è l'immagine dialettica del celeste trascendente e della dimensione terrena; tale dualismo è reso anche dal successivo intreccio, che simboleggia il movimento dei fatti cosmici e umani, intorno ad un disco centrale.

   

La continuità dell'invaso ecclesiale è fisicamente interrotta dalle lastre di recinzione del coro, ornate in modo analogo alla superficie pavimentale.

Al di là di esse, nella specchiatura con nove rotae si recupera il senso  della Trinità  e nel disco con cerchi minori raggianti è raffigurato Dio con le sue emanazioni nel mondo. Il litostrato, che si eleva progressivamente dall'ingresso all'altare, ha la sua quota più alta in corrispondenza dell'ultimo riquadro; qui spicca l'elemento circolare rosso, che nella sua regalità individua il luogo ove veniva distribuita l'eucarestia ai fedeli.

   

Bisogna aggiungere che nel corso dei secoli il pavimento ha sofferto alcune manomissioni, fortunatamente non sostanziali, tra le quali la più significativa è quella del 1361, quando fu consentita la sepoltura di un giovane abate di Benevento a ridosso del pluteo destro del coro, la cui lastra tombale, spezzata in due perché più volte violata, oggi è collocata su un apposito supporto. Attorno ai tratti somatici del defunto in atteggiamento di riposo eterno, si legge:

   

HIC IACET VENERABILE IUVENIS QUONDA(M) ABBAS

ANTONIUS DE TRAMONTO CANONICUS BENEVENTANUS

QUI OBIIT AN(N)0 D(OMI)NI MCCCLXI DIE XIII ME(N)SIS

FEBRUARII XIIII I(N)DICCIO(N)IS CUI(US) A(N)I(M)A

REQ(UI)ESCA(T) I(N) PACE49.

   

Dalle Visite Pastorali, infine, si apprende che la chiesa nel 1538 aveva un "pergulo de fabbrica", specificato nel 1583 come "pulpedum de fabbrica"50; nel 1571, "habet sedem a destris altaris maioris ubi solebat sedi r(everendus) Abbas dicte Eccl(lesi)e"51; nel 1583, poi, "chorus lapideus fabricatus quem Dominus laudavit"51: forse perché prima non c'era o piuttosto perché era stato restaurato?

   

Frammenti di storia architettonica questi, certamente interessanti, che meriterebbero un ulteriore approfondimento, sia pure con la prospettiva di rimanere insoluti.

Nel   1789, a  seguito di movimenti tellurici, fu eseguito un restauro statico della chiesa che comportò il rivestimento in muratura delle colonne con l'aggiunta di modanature e stucchi. In questa operazione, purtroppo, si operò la cancellazione irreparabile del patrimonio pittorico che rivestiva l'abside e la controfacciata della chiesa53. Il Viparelli nella circostanza scrisse che "queste pitture in un muro rappresentavano la consacrazione della chiesa eseguita da Pasquale II assistito da cinque cardinali e molti prelati; e nell'altro la venuta dei canonici lateranensi, chiamativi dal menzionato conte Roberto per officiarla. E la tradizione antichissima assicura che in quel guerriero che introduce in chiesa i suindicati religiosi vedevasi appunto l'effigie al naturale di esso conte Roberto. Ma in occasione di una visita del vescovo di S. Agata Giovanni Guevara dei marchesi di Arpaja fatta in essa chiesa a 17 giugno 1534, essendosi descritte le figure dipinte nei muri laterali del sacro tempio nel modo da noi esposto, non si assicura che nel guerriero fosse espressa la vera effigie del conte Roberto, dicendosi nudamente: 'in alia pariete adventus Regularium Canonicorum Lateranensium sub ducis ausilio depictus adspicitur'"54. Oggi, purtroppo, rimangono pochi e lacunosi frammenti degli affreschi sui due pilastri della controfacciata, oltre a qualche banda di colore all'interno di alcune monofore.

   

Il più antico e forse unico documento che riproduce questo nuovo assetto dell'interno della chiesa, è dato dal disegno fatto di suo pugno, e pubblicato nel 1896, da Emile Bertaux, il quale tra l'altro scrisse: "L'interno, di forma basilicale assai semplice, è tutto coperto di gesso e dei pilastri massicci sono stati murati intorno alle colonne della navata. Non si sono conservati intatti che la porta e una gran parte della decorazione a musaico del coro. L'archivolto della porta è lavorato a fogliame assai rigido e secco, e porta alle due estremità due testine di leoni; sotto l'archivolto gira su due righe, a grandi caratteri magri e stretti, l'iscrizione.. .Da questa iscrizione possiamo fissare anche la data dei musaici... Questi coprono il pavimento del coro, si prolungano in una striscia fin verso la porta, salgono i cinque gradini dell'altare, decorano le quattro grandi lastre conservate del cancello. (In nota) 1 due lati del cancello che dovevano completare la chiusura del coro e separarlo dalle navate laterali, sono scomparsi nel rifacimento dei nuovi pilastri."55.

   

Questa particolare attenzione del Bertaux per la chiesa di San Menna sembra tradire una certa nostalgia per l'antico splendore del monumento, segno che si era perduta ormai la memoria di quanto operato alla fine del '700. Ma l'audacia di un giovane studente santagatese, Domenico Mustilli, divenuto in seguito famoso per i suoi studi di archeologia, incoraggiata e protetta da Luigi Mongillo, subeconomo dei beni demaniali, fece riscoprire il tesoro celato dagli stucchi con sondaggi operati nei pilastri della chiesa. Era il 1921. Subito il prof. Rosi, già soprintendente ai monumenti per la Campania, approntò un progetto di restauro che, purtroppo, restò chiuso nei cassetti. Solo negli anni 1955-57 fu operato il recupero del colonnato sotto la direzione di Riccardo Pacini e Antonio Rusconi. 

   

In quell'occasione, durante la demolizione dell'altare ottocentesco, fu ritrovata una lastra di pietra che reca incisi un chrismòn con le lettere apocalittiche "A" e "w", contornato da tralci di vite con grappoli. Da un punto di vista iconografico, è confrontabile con analoghi esemplari paleocristiani databili al VI-VII secolo, di ispirazione bizantino-ravennate57. La simbologia rappresentata sul pluteo ben si confà ad una fronte di altare, naturale protezione delle reliquie ivi custodite.

Probabilmente anch'essa fu recuperata in loco o comprata dal conte Roberto per il suddetto scopo. Oggi, nella sua essenzialità, funge da paliotto d'altare.

   

Infine, è cronaca di ieri il devastante terremoto del 23 novembre 1980 che determinò il crollo della copertura della navata sinistra. Il terribile evento rese necessario un processo di restauro scientifico, risultato lungo e laborioso, che tuttavia ha consentito, in particolare, la splendida rinascita del mosaico della chiesa58 e ultimamente il meraviglioso parziale recupero della cinta muraria della città. Dopo 25 anni di paziente attesa, finalmente si celebra il suo compimento con la benedizione solenne del nostro vescovo Mons. Michele De Rosa.

    

NOTE

1   Ughelli E, Italia Sacra, VIII, Venezia 1721, col. 347- Viparelli E, Memorie isteriche della Città di S. Agata de' Goti Napoli 1841, p. 4L 

2   "Conte di Sant'Agata e di molte altre città" in Tescione G., Roberto conte normanno di Alife, Caiazzo e S. Agata dei Goti, in Archivio Storico di Terra di Lavoro  IV, Caserta 1975, p. 16.

"Abbandoni i peccati colui che oltrepassa i gradini di (questa) soglia / Se (qualcuno) chiede (a chi è dedicato) il tempio, sappia che è sotto (il titolo di) Pietro principe (degli Apostoli) I Tu,

     conte  Roberto, dopo averlo fondato, l'hai degnamente ornato". I tre versi sono scanditi su due righe parallele lunghe 293 cm.

  Magnum Bullarium Romanum, II, p.261. Jaffé Ph., Regesta Pontificum Ro manorum, Graz 1956,1, p. 261.

5   Per completezza si riporta tutto il testo: 

AXXO AB INCARNATIONE D(OMI)NI M(1LLESIM)O C(ENTESIM)O X II NONAS SEPTEMBRIS INDICTIONE QUARTA HEC ECCUESDA CONSECRATA FLIT IN HONORE(M) D(OMI)Nl SALVATORIS S(ASC)TEQ(UE) MARIE VIRG(INS) ET S(AN)C(T)E CRUCIS S(AN)C(T)ORU(M)Q(UE) AP(OSTO)LOR(UM) PETRI ET PAULI ET S(AN)C(T1) MENNE CONF(ESSORIS) P(ER) MANUS D(OMl)NI PASCHALIS S(E)C(UN)D1 P(A)P(E) P(RE)SENTIBUS TAM CARDINALIBUS QUA(M) COEPIS(COPIS) EAMQ(UE) D(0)M(INU)S PAPA SUB IURE ROMANE ECCL(ES1)E BEATI PETRI AP(OSTO)LI IN SUA DEFENSIONE SUSCEPIT EI DONANTE ATQ(UE) CONCEDENTE DO(MI)NO R(OBERTO) COM(I)TE HUIUS ECCL(ESl)AE FUNDATORE TAM P(RO) SE QVAM S(U1)S HEREDIB(US) UND(E) BENEFACIENTES BENEDICTIOM DONAVIT IBI VERO MALEFACIENTES EXCOMLJNICATIONE DA(M)NAV(IT)

 

 

      (Nell'anno 1110 dalla nascita del Signore il 4 settembre nella quarta indizione questa chiesa fu consacrata in onore del Signore Salvatore e della Santa Vergine Maria e della Santa Croce e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e di San Menna confessore per mano del signor Papa Pasquale II alla presenza  sia di cardinali che di vescovi e il signor Papa la prese sotto l'autorità della Chiesa romana, del beato Pietro apostolo per difenderla, avendogliela benevolmente donata, sia per sé che per i suoi eredi, il signor conte Roberto fondatore di questa chiesa. Pertanto ai benefattori donò la benedizione, mentre condannò con la scomunica chi ivi opera il male). L'epigrafe misura 69 x 67 cm.

6     Tescione G., op. cit., pp. 9-52.

7     "Donazione di una pescheria chiamata Turfa, che si trova nel territorio di Telese, alla chiesa del beato Pietro apostolo, sita all'interno delle mura del nostro castello della città di Sant'Agata", in Tescione G., op. cit. , p. 50.

8     Viparelli F, op. cit., p. 54.

9     Tescione G., op. cit., p. 20, nota 42. L'autore suppone che Roberto abbia fatto costruire la chiesa dopo che le reliquie di San Menna furono trasportate nel castello di Sant' Agata. Questa opinione, per niente sostenibile, è riportata anche da Cielo L. R., (Monumenti romanici a S. Agata dei Goti, Roma Rari Nantes 1980, pp. 96-97), il quale ha cercato addirittura di individuare nell' attuale chiesa di S. Pietro a Romagnano qualche traccia di quella che avrebbe dovuto essere l'architettura romanica della fon­dazione comitale.

10    Tescione G., op. cit., p. 19.

11      Cfr. supra, nota 3.

12    "Le chiese (sotto il titolo) del beato Pietrofondate entro le mura della Città di Sant'Agata". Il documento, pubblicato dal Viparelli {op. cit., pp. 44-45), è riportatonei manoscritti dell' archivio storicodiocesano di Sant' Agata de' Goti, che d' ora innanzi sarà citato come ASD-SAG, Iura diversa Mensae Episcopalis, V, f. 286; M(iscellanea) N(uova), 16, f . 16. Da esso si può dedurre che la chiesa di San Pietro de Sterponibus era già costruita agli inizi del XII secolo. Nel 1698 essa viene descritta ancora come chiesa dalla struttura antica (romanica?) con tre piccole navate, di cui quella centrale poggiante su quattro colonne di marmo, con abside centrale a semicerchio; cfr. Abbatiello A., Annali Parrocchiali, La cura d'anime a Sant' Agata dei Goti: dal Capitolo Cattedrale alle Parrocchie, Angelica - S.Agata de' Goti, n. 1, 1986, p. 35.

13    De Gaiffier B., Translations et miracles de S. Mennas par Leon d'Ostie et Pierre du Mont Cassin, in Analecta Bollandiana, LXII, 1944, p. 7.

14    Gattola, Accensiones, II, p. 713 in Tescione, op. cit., pp. 14-15.

             15    II nome di Sibilla, moglie di Rainulfo, è noto da una bolla di Pasquale II del 25 settembre 1108, nella quale il Papa conferma ad Agano, abate di S. Gabriele in Airola, le donazioni fatte 

                   dal  conte al monastero. Cfr. Bloch H., Montecassino in the Middle Ages, Roma 1968, p. 262.

             16    MGH, SS, VII,I.III, e. 26, pp. 716 ss.

             17    Tescione G., op. cit., p. 12.

18     Pantoni A., La basilica di Montecassino e quella di Salerno ai tempi di San Gregorio VII in Benedictina, Roma 1956, p. 24.

19    Pantoni A., op. cit., pp. 23-47.

20    "Alfano, l' amico di Desiderio, che ascese sul trono episcopale di Salerno V anno stesso ( 1058) in cui Desiderio diventava abate di Montecassino, ha lasciato un poemetto 'de 

         Casino Monte'  ove esalta liricamente le costruzioni desideriane, allora nella piena interezza delle loro forme e nello splendore più vivo della loro multiforme decorazione" 

          (Pantoni A., op. cit., p.35).

21    Bloch H.,op. cit.,p. 262.

22    "Grande uomo, coraggioso nelle imprese e molto devoto nel servizio divino, come conviene essere, e zelante", in De Gaiffier B., op. cit., p. 17.

23    Ibidem, pp. 5-33.

 Secondo Orlandi G., [Vita Sancti Mennatis, Istituto Lombardo (Rend. Lett.) 97, p. 468 (1963)], si può parlare di un "Corpus Sancti Mennatis", in quanto il manoscritto cassinese 413 si compone di quattro parti, così ordinate:

I     Vita S. Mennatis (pp. 253-260)

II    Translatio S. Mennatis (pp. 261-266)

III          Alia translatio (pp. 266-267)

IV    Miracula S. Mennatis (pp. 267-268)

 24    "In Samnii provincia quidam venerabilis vir Menna nomine solitariam vitam ducebat. Hic itaque nihil ad usum suum aliud, nisi panca apum vascula possidebat. Apud omnes incolas Samnii et etiam apud barbaram gentem eius celebre nomen fuit (nella provincia del Sannio un uomo venerabile di nome Menna conduceva vita solitaria. Non possedeva altro per sé che pochi alveari. Il suo nome è stato celebrato da tutti gli abitanti del Sannio e persino dai barbari" (S. Gregorio Magno, Dialoghi, III, 26 in Officia Propria Sanctorum Recitanda in Civitate et Dioecesi Agathensi Joseph De Nardis iussu edita, Maddaloni, 1938, pp.57-59).

 25    Russo M., La contea di Caiazzo in età normanna, in www.caiazzo.it, rassegna storica on-line, 1, 2000, p. 15: "La disputa instauratasi tra Roberto, Riccardo II di Capua ed il vescovo di Chiazzo Costantino riguardava il monastero benedettino di Santa Croce, donato nel 1097 da Riccardo II a Guarino, abate di San Lorenzo di Aversa Costantino non aveva accettato la donazione e se ne era impossessato con forza. Guarino ricorse alla Santa Sede che riconobbe l'indipendenza del monastero dalla chiesa vescovile e costrinse il vescovo di Caiazzo a restituire il monastero all'abate di Aversa con una pubblica rinunzia effettuata il 25 settembre 1100 alla presenza del papa, di vari cardinali e degli arcivescovi di Salerno e Benevento Nel 1105 il nuovo vescovo di Caiazzo Pietro riconobbe quanto deciso nel 1100, anzi il tutto approdò ad un atto di conferma del 1106. Si chiudeva così il contrasto tra V episcopato di Caiazzo e l'abate di Aversa ma anche tra il vescovo e Roberto".

 26    "Uomo venerabile e degnissimo di rispetto vescovo della Città di Sant'Agata", in De Gaiffier B., op. cit., p. 26.

 27    "Accogliendo (le sacre reliquie) con le proprie mani, se le posero sulle spalle e cantando ed esultando, entrarono in città; trasportarono quindi le reliquie nella cappella del castello, ove le collocarono con devozione sull' altare del beato Pietro; dopo la solenne celebrazione dei sacri misteri da parte del Vescovo, ciascuno tornò pieno di gioia e letizia a casa sua... tre giorni prima delle Idi di aprile (13 aprile), quando erano trascorsi - spazio vuoto - anni dalla prima traslazione": De Gaiffier B., op. cit., p. 27.

 28    L'Ughelli, op. cit., nella sua cronotassi non riporta il vescovo Adalardo: perché non conosceva il codice cassinese o perché, come si potrebbe sospettare, Ada-lardo è un refuso di Bernardo? Sarebbe interessante consultare il codice cassinese.

 29       Tescione G., op. cit., p. 30 nota 70.

 30       Nel testo del manoscritto è inserita la seguente citazione: Mur. An., tomo 7° pag. 159 ediz. di Napoli e Rainone, Origine della Città di S. Agata, Napoli, 1788, p. 35.

 31       ASD-SAG.M.N. 26, f. 115.

 32       Viparelli E, Memorie storiche di S. Aga ta de' Goti, III, Napoli 1841-42, p. 33.

 33       MGH, Scriptores, 34, Ed. Hoffmann, Hannover 1980, p. 101. Nel documento il nome dell'abate è Bertharius e quello del gastaldo Hisembardus.

 34       ASD-SAG, Sante Visite, 1, f. 309v. "Gronda" = (dal sec. XII) comunità monastica benedettina costituente un' unità economica, amministrata da un monaco granciere in Dizionario  

           Enciclopedico Maximus, Ist. Geogr. De Agostini, Novara 1994, p. 1184.

 35       "Qui riposa il corpo del beato Menna confessore - Qui riposano ì corpi dei santi Bricio e Socio martire - Del medesimo (sarcofago) la metà parte".

 36       Viparelli E, ibidem.

 37       "Alto un palmo, largo un palmo e mezzo e lungo quattro palmi, diviso in due in egual porzioni da una tavoletta di marmo con delle iscrizioni sulle due facciate. 1 caratteri erano incisi e

            colorati in rosso" in ASD-SAG, M. N.,op. cit.

 38       "Monasterium S. Mannari "(1308- 1310); "A domino frate Johanne abbate monasterii S.Menne S. Agathensis dyoecesis" (1325) in Rationes decimarum Italiane nei secoli XIII e XIV.   

            Campania, a cura di M. Inguanez, L. Mattei-Cerasoli, P. Sella, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano MDCCCCXLII, pp. 168-178.

39        ASD-SAG, Sante Vìsite, 5, f. 11 Ir.

40       ASD-SAG, Miscellanea Nuova, 16, f.456 ss.

41       II Mattino, 24.08.1973, p. 7. Le dimensioni della lapide sono: cm 38,5/34,5 x 26,5 x 3/3,5.

42       Italia Romanica, La Campania, Jaca Book, 1981, pp.206-7.

43       Campanati R. E, La cultura artistica nelle regioni bizantine d' Italia dal VI all'XI secolo, in  AA. VV., I Bizantini in Italia, Libri Scheiwiller, Milano 1982, p. 257-8.

44       Corvese E (a cura di), Desiderio di Montecassino e le basiliche di Terra di Lavoro, L'Aperia, Caserta   1999, p. 12.

45       Pantoni A., op. cit., p. 28.

46       "In marmoribus omnigenum colorum flores pulchra putet diversitate vernare" in ibidem, p. 30.

47       Bertaux E., Per la storia dell' arte nel napoletano: Sant' Agata de' Goti, in Napoli Nobilissima, 1896, V, p. 5.

48       Corsi A. M., La decorazione pavimentale nella chiesa di S. Menna a Sant' Agata de' Goti, in Atti del IV Colloquio AISCOM, Ed. del Girasole, Ravenna 1977, pp. 676-677.

49       "Qui riposa il venerabile giovane un tempo abate Antonio De Tramonto canonico beneventano che morì nell' anno 1361 il giorno 13 febbraio 14 indizione la cui anima  riposi in pace". Le  dimensioni della lapide sepolcrale sono: cm. 154 x 50 x 7.

50       ASD-SAG, Sante Visite, 1, f. 397v.Ìbidem, 4, f. 171r.

51       Ibidem , 3, f. 343.

52       Ibidem, 4, f. 348r.

53       La prima notizia reperita sugli affreschi è del 1557 in ASD-SAG, Sante Visite, 2, f. 221, ove si verbalizza semplicemente: "(ecclesiam) in parietibus depictam".

54       V(iparelli) E, Chiesa badiale del San Menna, in Poliarama pittoresco, 1846, p. 182.

55       Bertaux E., op.cit., p. 5.

56       Pacini R., lì patrimonio artistico della chiesa nell' Italia meridionale e nelle isole, in Fede e Arte, 1957, p. 75. Violetta A., Note sulla chiesa di San Menna restaurata, in Samnium, 38  (1965),  pp. 232-237.

57       Cielo L. R., Una lastra paleocristiana di S. Agata dei Goti, in Studi Meridionali, n° 1, 1979, pp. 17-28 ). Il pluteo andrà meglio studiato dal punto di vista dell'esecuzione tecnica: se i margini  della lastra furono certamente rifilati dopo il suo ritrovamento (dimensioni attuali: 131 x 79 x 4<6 cm), il trattamento della superficie, mal accordandosi con un esemplare di età tardoantica,  sembra denunciare quantomeno una rilavorazione.

58      Cerio S., S. Agata de' Goti: Chiesa di S. Menna - Pavimento. Proposte per una metodologia di rientegrazione di pavimenti medioevali in marmi policromi, scheda in Primo Incontro 

         Tecnico Nazionale tra Restauratori, Pisa, 9-10 maggio 1992.

 

 

 

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